IL SUONATORE DI PIATTI (di Fernando Acitelli)

 

 

- di Fernando Acitelli -

 

 

Di tutti i musicanti a me interessava soltanto il suonatore di piatti ma questo non lo svelavo a nessuno e tenevo celato un simile pensiero, in verità pochi avrebbero compreso e se io potevo ben definirmi un minimorum lusor, poeta giocoso, avvistatore di piccoli eventi, era giusto che innaffiassi con meticolosità e silenzio un simile ramoscello, eh, la festa del Ferragosto era in effetto, il film, le cantanti, l’odore di noccioline, Assergi sotto il fuoco di fila di Nikon e Pentax, fotogrammi memorabili, e poi i saluti di chi era tornato al luogo natio, da Caracas, Liverpool Philadelphia, Peekskill, Detroit, le camicie botton down, e poi i procuratori della festa come ministri delle finanze di Re Luigi XVI e infatti s’avvistavano diversi Necker, quindi le vecchine adorabili, tutte comprese in corpetti e bluse con diverse gradazioni di colore dal blu al grigio al nero, e poi una lunga sequenza di medagliette sopra il loro cuore, vere decorazioni al valore religioso con i piccoli affreschi di San Franco, San Gabriele, la Madonna della Libera, tali per l’appunto quei pendagli, già, già, proprio così, una situazione nella quale si doveva quasi intercedere per simili donnine, anime buone, credenti fino allo sfinimento, propositive nei loro infiniti Gesù Crist care care care, o soltanto Gesù Crist mi, ancora più doloroso, perturbante, quasi s’era scompensati ascoltando quel suono, betabloccanti in privato, da soli, nella natura morta d’un bicchiere e d’una bottiglia per ingurgitare quel siluro ripristinante la quiete interiore, oh mia emozione nel vedere le vecchine, valutata anche l’ipotesi dell’abbracciarle, del sussurrare loro la parola “speranza” che s’era ormai prosciugata come un ruscello finito male, fattosi anemico con pozzanghere ai lati e sassi bene in vista nella nuova condizione, questa la storia ma la festa offriva anche lo spettacolo degli spari da ammirare posizionandosi dalle parti di Cesare Cipicchia, mica momento da poco, esultanze silenti e poi, durante il pranzo, quale orgoglio ripetere Che spari!, e per la messa Maria Spennati, una delle Marchette, ecco che lasciava sola la sorella Francesca, ben custodita agliu capescale e partecipante alla funzione dal suo nido alla Strada Ritta, l’ascoltava dunque la messa, si stringeva al suono delle campane, eh, tutto questo registravo e anche altro ma il mio sublime era nella banda dei musicanti e in essa colui che si distingueva, che vinceva per distacco (almeno per me), ovvero il suonatore di piatti, l’ultimo della fila, una vita in disparte la sua, un artista vero, un retrocedente che aveva accettato quel ruolo ma che, in verità, era un artista del clarinetto solo che anche in una banda musicale esisteva la gerarchia e così era stato costretto ad accettare quel ruolo ma lui era l’ultimo soltanto come posizionamento, infatti chiudeva la banda, in vero un funambolo delle note, ma il suo punto d’osservazione era meraviglioso perché poteva fissare tutte le mosse degli altri musicanti davanti a lui, una bella vita in fondo, qualche distrazione era possibile rispetto a chi lo precedeva, e di qualche sua variazione sul tema non se ne sarebbe accorto nessuno, pensate un po’, e mica c’era Battista o Abramo o Berardino a seguire ritmi e cadenze, ma per l’amor di Dio, e costoro già al pomeriggio se la sarebbero giustamente svignata dall’atmosfera della festa e, cambiatisi d’abito e ripristinati gli indumenti da lavoro, si sarebbero confinati nella quiete assoluta del pagliaio, nell’ampio verde del fienile dove non si prendeva il raffreddore da fieno, per carità, veri battaglioni a quel tempo i linfociti T, veri legionari romani contro Galli e Parti, eh, questa era la situazione nel pomeriggio della festa, stallo della contentezza, stasi della serenità, istanti non favorevoli per gli ansiosi, per i luminari del tempo, quello inteso intuitivamente come dasein, il dramma dell’essere gettati nel mondo, oh questo lo capivano anche ad Assergi pur non avendo approfondito certi concetti, infatti quando ascoltavo la frase Ah, ne me fosse mai trova, ebbene, questo sfogo anticipava ogni esistenzialismo, ogni fenomenologia, e in quei momenti mi facevano quasi ridere Sartre e Husserl, e la sensazione di chi la pronunciava era la constatazione dell’accorciamento dei giorni rimasti, dunque si verificava un bilancio, un patto di stabilità con l’esistenza, eh, quante metafore, quanti sostantivi per ogni emergenza dell’animo, per ogni diradamento del senso, tanti, né i vari Battista, Abramo, Berardino coglievano la condizione metafisica del suonatore di piatti, del resto il loro disincanto, il loro distacco dal caos interpretativo era ormai un evento acquisito, naturalmente con l’intuizione che non prevede i libri ma la profondità dell’animo, bel quadro riassuntivo, e allora non mi rimaneva altro che amare questi philosopher alla buona sulle scale del pagliaio o nella stalla a governare le bestie, figure creative al sommo per le metafore che riuscivano a comporre, autentici funamboli della praxis, proprio vero, ma io dedicavo tutti i giorni della festa al suonatore di piatti, uomo emarginato che sollevava ilarità nelle persone che componevano le ali di folla, e per essi anche il suonatore di tamburo aveva la preminenza su l’ultimo individuo che chiudeva la banda, eh, non si poteva ribattere, esporre le proprie tesi e si doveva rimanere da soli per amare un individuo “in disparte”, colui che era destinato a rimanere anonimo, sì, più anonimo d’uno scrivano ministeriale, febbricitante nel suo ritaglio di mondo, ma almeno lo scrivano ministeriale, al pari dell’archivista, poteva essere personaggio di romanzo ma un suonatore di piatti avrebbe potuto contare solamente su un animo altrettanto in disparte, un ossessivo del margine, un catalogatore di figure scompensate dall’esistenza, proprio così, pensavo in anticipo, un piccolo veggente, la Lettre du Voyant di Rimbaud, dunque vedevo il suo “dramma” di suonatore di piatti, cercavo d’accreditargli un senso,  certamente lo consideravo in più alto grado di chi era a capo della banda, eh, avrei dovuto invitarlo a cena, i miei nonni Lorenzo e Maria lo avrebbero certamente accolto Cari nonni, costui è il suonatore di piatti, avrei detto loro, ed essi, sensibili e con un lieve sorriso, lo avrebbero fatto accomodare, riservato a lui il “capotavola”, e dalla cantina avrebbero tirato fuori il meglio per il bene che entrambi volevano al mondo, ed io, seduto accanto, lo avrei studiato con attenzione, mi sarei fatto spiegare in che modo era stato collocato a “suonatore di piatti” e lui, un po’ glissando, avrebbe risposto che era una lunga storia della quale non era facile parlare ma che lui adesso amava simile status e che dunque non recriminava e l’importante era poter percepire un compenso come tutti gli altri e allora il campare non sarebbe stato un fatto ardimentoso, proprio questo avrebbe detto, ma a pensarci in quei momenti, ritenevo impossibile che lasciasse i suoi compagni d’avventura, che insomma dicesse loro Scusate ho fatto colpo, sono invitato a pranzo, e se ogni anno cambiava la banda a me poco interessava, il suonatore di piatti era sempre al suo posto ed io nelle pause, quando magari la banda al completo stazionava ai margini della piazza, poco oltre la Congrega, oppure ai Frati, a solfeggiare davanti al cancello della villa di Walter Acitelli, ecco, in quei momenti m’avvicinavo cercando la tristezza d’un solo individuo, quello più poetico, quello che all’armonia dei fiati rispondeva con sottolineature dorate, cioè con un fragore lieve, da contrappunto, da risalto, belle storie s’ergevano, oh sì, ma dovevo concentrarmi nel mentre la banda era ferma, dovevo sfruttare quegli attimi preziosi e fare ricognizione sulla giacca del suonatore di piatti, vedere se essa era integra oppure esposta all’universo delle ricuciture, dei rammendi dichiarati “invisibili” dalla moglie o dalla madre, e spesso questa mia “risonanza magnetica” ravvicinata non faceva altro che addolorarmi, eccolo dunque il referto, perché la giacca versava in pessime condizioni e neppure il tessuto nero salvava, quei graffi erano visibili, ed essi si situavano quasi sempre dalle parti dell’occhiello, delle tasche ma anche alle asole erano evidenti delle slabbrature, eh, davvero storie che avrei voluto evitare ma non potevo far altro che finire nel dramma, né i bottoni rassicuravano e ad una distanza minima si vedeva che erano lenti e poi uno era blu e un altro nero e alle maniche dei quattro originari color grigio perla due erano saltati, e nel corso degli anni ne vidi molti di suonatori di piatti e sin dal primo momento m’augurai che colui che in quell’estate m’era davanti, si staccasse dal gruppo, evento facile da realizzare visto che era l’ultimo come collocazione nella banda, e finisse in un fienile per riposarsi e starsene nel fresco d’un luogo custodito, una sorta di rifugio nelle campagne di Francia ai tempi della Rivoluzione, eh, quel tempo di avventurieri e fuggitivi, ultimi esempi di figure nate all’epoca del cardinale Richelieu, del resto i luoghi lo permettevano perché c’erano ancora i contadini e dunque lo scenario di Assergi era adatto per un’epica da replicare in forma soft, molto prima delle fiction, così il suonatore di piatti poteva assurgere anche al ruolo d’un disertore della Grand Armée in epoca napoleonica, oh sì, fuoriusciva dalla battaglia con astuzia e confondendosi tra il fumo degli schioppi e le varie nebbie dell’Europa in fiamme, si metteva in salvo, perché anche il suonatore di piatti, nel suo animo, desiderava mettersi in salvo, scansare quella qualifica, mettere da parte i piatti, magari conservarli in una teca di plexiglas ma finirla con l’essere l’ultimo della truppa, e negli anni doveva aver allestito nella casa una lunga sequenza di fotografie delle quali sua moglie andava orgogliosa, e in effetti si trattava d’un piccolo museo nella camera da pranzo e le didascalie chiarivano tutti i paesi dove s’era distinto come suonatore di piatti, ma Assergi gli rimaneva nel cuore, oh sì, quei percorsi a volte imprevedibili in cui si poteva ancora provare una sensazione d’antico, di case risolte in pietra che sollevano l’idea di piccoli manieri, di fortilizi alla buona, di eventuali arrampicate di nemici per espugnarli, oh sì, era anche questo Assergi per me, vale a dire il sogno, la visione, l’avvistamento di scene improbabili ma per questo sublimi, agognate, come sarebbe potuta essere la diserzione del suonatore di piatti, lui il vero dandy, il solitario lirico, il catalizzatore di sensazioni per i viandanti che osservavano il mondo con il cuore più che con gli occhi, sì, quasi ogni anno la banda cambiava ma il “ruolo” del suonatore di piatti non si toccava, l’ultimo della truppa dei musicanti e lui valeva un tesoro come resa di immagini, da dire questo, e si sarebbe dovuto comporre un saggio su di lui o un racconto, già allora lo sentivo, lo architettavo nella mente, in un certo senso proteggevo quella figura considerata poco dagli stessi compagni d’avventura, proprio questo  pensavo, e l’ultima volta che vidi una banda ad Assergi doveva essere il 15 agosto nell’Anno del Signore 199… ed essa proveniva dalla casa di Angelo Giusti, valente edificatore di case, dunque procedeva in discesa e mi colse proprio mentre mi trovavo tra l’arco di Manetta e la casa rimbombante di Domenico Acitelli, quello il luogo, e l’atmosfera della festa già quasi estinta mi colse in loco e mi ripresi solamente ammirando, al solito, l’ultimo della banda, l’edificatore dei miei sogni, il cesellatore d’immagini per la mia emergenza onirica, il chiaroscuro che dona profondità, l’aggiudicazione ad un’asta da Sotheby’s, e in quell’occasione constatai che era un altro individuo rispetto a quello dell’anno precedente e così, per lasciare che sfilassero, mi collocai dentro quel fresco arco da dove soleva spesso uscire Vincenzo Mosca, vale a dire Manetta, un bell’uomo, un tipo imponente proprio come il suo cavallo baio, esattamente questo, e allora da quel mio luogo scrutai il suonatore di piatti la cui precarietà m’affascinava e in quell’occasione potei constatare come i suoi i calzoni fossero corti e così s’avvistavano dei calzini controproducenti, e fui al solito a domandarmi in quale lavoro s’industriasse quell’uomo quando non s’occupava delle note musicali, quesiti esistenziali di cui quell’individuo che chiudeva la banda e che rimaneva un poco distanziato quasi per statuto non ne sapeva nulla, ma congetturare su volti e sguardi era occupazione sacra e quasi abbisognava dell’organo di chiesa, tutto questo componevo nella mente ed ero felice perché in quei fotogrammi mi riconoscevo, un vero distacco dalla vita e quindi, voltandomi indietro verso quella corte dove Vincenzo Mosca possedeva una stalla, vidi sopra alla porta un’altra apertura che era sbarrata grazie ad un bastone fissato orizzontalmente, dunque il sublime d’un fienile e l’accesso ad esso sarebbe stato possibile grazie ad una scala che era poggiata a lato della porta della stalla, oh quale affresco quelle immagini produssero in me e di colpo m’assalirono girondini e sanculotti e dunque immaginai il suonatore di piatti fuggitivo tanto era l’ultimo e non se ne sarebbe accorto nessuno, e dunque, varcato l’arco, egli si sarebbe innalzato con la scala dentro il fienile e si sarebbe riposato alla faccia della gerarchia, del capo della banda e dei suoi fedelissimi, ed era bella quella sua collocazione nel fienile a ripensare a tutta la sua vita, ed io abbarbicato accanto alle travi di castagno ad osservarlo, a sentire i suoi sospiri, gli accennati monologhi, tutto questo immaginai ma la bolla di sapone del sogno si elise e in breve tornai alla geometria trasandata della banda che al di fuori dei miei sogni o almeno delle mie congetture, non pareva avesse una solida storia su cui contare, queste le mie conclusioni, peccato che quel mio affresco con il suonatore di piatti come protagonista nel fienile durasse appena degli attimi, eh, quale evento sublime il sogno, dunque la banda proseguì verso il paese ed io invece procedetti in senso contrario, verso fuori, a confidarmi coi grilli e con chi anche in quel giorno festivo aveva preferito una ricognizione su fieno o erba medica schivando l’angoscia della festa.    

 



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