IL CASO CAPODIFERRO - di Fernando Acitelli -

Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso.

                     Ennio Flaiano

IL CASO CAPODIFERRO

- di Fernando Acitelli -

 

Claudio Capodiferro non si perde mai d’animo. È un volenteroso con addosso lo zucchero al velo del narcisismo. Prima o poi gli si dovrà concedere la cittadinanza onoraria di Assergi se non altro per la fedeltà alla traiettoria Roma®Assergi. La sua mente e la sua “visione del mondo” devono molto al paese d’origine dei suoi nonni Luigi Vitocco e Concetta Giannangeli e di sua madre Anna. E naturalmente anche il padre Renato ha contribuito a scolpire il busto chiamato Claudio Capodiferro.

La natura in diretta e il forte senso degli affetti, non diluito come può accadere in una città, lo hanno modellato. Location insuperabili ad Assergi hanno forgiato la nostra generazione: il corso del fiume, quella galleria di verde sul sentiero dopo Rive, l’odore dei pricari, la via dei Rignali, gl’ort Chiccone, gli spini Francacc, tanto per citare dei luoghi di memoria, e poi le montagne dalle cui vette era evento perdersi con la vista nell’Infinito. Inoltre: abbiamo visto e ammirato (e amato) l’ultima stagione dei contadini, e poi la loro uscita dal mondo in flash al pagliaio o sull’uscio di casa e ancora accanto al focolare in tramonti ricamati di tristezza.

Se non fossimo stati ad Assergi non avremmo mai visto la mietitura, la falciatura, il governare le care bestie nelle stalle, e poi la trebbiatura reclusa in un pulviscolo di spighe e di gama e con l’odore del combustibile che mandava avanti quella poderosa macchina nell’ara di Fantine, dei Giusti con il macchinista che aveva gli occhi più che a mandorla e che veniva da Paganica e che non avrebbe sfigurato come caratterista in un film western di Sergio Leone.

A seconda di come era l’umore, Claudio Capodiferro lo si poteva vedere alla Piazzetta del Forno, seduto sulle scale di lato alla casa che fu della Cupella e in questo caso la sua posa era certamente riflessiva ma esprimeva anche irritazione come in seguito ad un’incomprensione da parte degli amici; oppure, montati tela e cavalletto, lo si vedeva intento a dipingere la Costa o la Piazza, e ancora qualche fenomenale scorcio con case in pietra. E comunque, anche in questa fase pittorica, non era mai contento e bofonchiava a lento labbro, come a dire che la mente non riusciva a custodire quanto dentro ribolliva e così, ad un confidente sicuro, ecco che vuotava il sacco e una lamentazione ad andatura logica si componeva. Ma la domanda a quel punto era: come poteva venire bene il dipinto se non s’aveva una serenità interiore? Ecco, per procedere Claudio doveva rimanere solo, era questa la condizione ideale per dipingere. A quel punto c’era la sua verità e quella dei pennelli, della tela e dell’ispirazione. A dirla in breve la fase creativa non prevedeva uno sfogo con qualcuno ma il mantenimento del magma che dentro ribolliva. Del resto non era stato il poeta latino Giovenale a dire Indignatio facit versus? Era vero, l’indignazione creava i versi, il sentirsi contro qualcuno facilitava la creazione. Ma non si doveva sbottare, altrimenti tutto si sarebbe attenuato. Dunque, nell’arte era necessario avere un antagonista (o molti) interiormente. Da questo assunto, ecco che si poteva dire come dietro qualsiasi opera d’arte ci poteva essere (c’era!) un continuo scontro con un rivale o una persona contro cui accanirsi.

Ma a parte la sfera emotivo/artistica, Claudio Capodiferro eccelleva nel comporre i curriculum. Era come inoltrarsi in un mondo in cui gli errori nell’elencare tutti i titoli non erano contemplati e dove le parole comparivano soltanto per esporre i requisiti. In quei campi semantici non c’era posto per pensieri in bello stile, per una esilità d’animo svelante un cuore nobile e fragile a un tempo. Nei curriculum non poteva avere residenza il romanticismo e quei fogli sarebbero finiti su una scrivania e sotto gli occhi di persone poco propense ad aspetti lirici della vita. Il curriculum esponeva la crudezza della verità e come tale reclamava in silenzio una risposta. In altri termini il ricevente avrebbe dovuto rispondere a coloro che avevano redatto quelle notizie riguardanti lo studio e l’esperienza maturata ma, naturalmente, soltanto se le valutazioni ottenute negli studi eccellevano. Una media alta ottenuta in quei titoli poteva spostare in avanti un’esistenza e far sì che essa non fosse sommersa da altre con votazioni scadenti. Queste ultime sarebbero finite in un cestino, ovvero nell’oblio dell’essere. La storia si conosce: erano chiamati per un colloquio soltanto quei candidati con una media eccellente e che, dunque, nei testa-a-testa con i professori avevano trionfato, a meno che non si fosse trattato d’un concorso vero e proprio e in questo caso partecipavano tutti coloro che avevano inviato correttamente i documenti.

Comunque Claudio non svelava a tutti i suoi progetti ma si confidava soltanto con colui che poteva definirsi un amico fidato e questo solamente dopo che tutto era stato inoltrato per posta (un tempo) o per via telematica nella fase avanzata della Téchne. La ricostruzione era esemplare e chi ascoltava vedeva tutto come si trattasse d’un film: Claudio che compilava in tutti gli spazi quanto richiesto e poi, con le parole che erano immagini, si riusciva a intravedere anche colui che avrebbe ricevuto quei fogli e che avrebbe letto e in quella rappresentazione pareva avvertirsi anche la stanchezza di quell’oscuro individuo nel passare in rassegna e valutare tutti quei curriculum. Ma Claudio non era mai contento di quanto composto, di quanto spedito. Individuo problematico, non faceva altro che porsi delle domande e infatti alla fine affermava che quell’eventuale nuovo lavoro riservava secondo lui delle incognite. Ma tutto questo era elaborato partendo da una situazione già favorevole, ovvero lui un lavoro già lo aveva e dunque tutte quelle considerazioni non erano altro che degli arzigogoli intelligenti ma privi di quella disperazione che può giungere puntuale quando c’è mancanza di lavoro.

La precisione nel comporre quei curriculum era la stessa con la quale Claudio Capodiferro si pettinava; era per lui inammissibile che la sua chioma non fosse perfettamente in riga e col tempo si vide che egli avrebbe potuto anche fare a meno del pettine per come quella capigliatura era stata trattata dall’inizio, cioè dall’adolescenza, e per il modo in cui, ormai, si componeva da sé. Infatti erano sufficienti un paio di carezze al risveglio – con le palme delle mani e soprattutto ai lati – e la chioma era subito composta. E non faceva nulla se era imbiancata con largo anticipo, e quello che valeva era la sua integrità senza che si fosse diradata in qualche punto, magari ai lati in alto della fronte oppure dalle parti della nuca: nulla di tutto questo e dunque si poteva parlare benissimo d’una chioma sana, compatta, e che sarebbe stata al suo posto per un tempo lunghissimo. Proprio della chioma e del taglio che su di essa si doveva osare ne parlammo sin dall’adolescenza e lui imitò il taglio dell’attore di fotoromanzi Franco Gasparri. In fondo fu una bella intuizione e avendo saputo che il divo in questione si recava ad un “Barber Shop” dalle parti della Stazione Termini, ecco che egli, dopo ricognizione opportuna, mosse proprio verso quel luogo e ottenne soddisfazione nel senso che il taglio fu proprio quello che lui aveva in mente e dai sedici anni fino ad ora è rimasto sempre lo stesso. Proviamo ad immaginare un Claudio Capodiferro sedicenne che sale sul tram, paga 50 lire al bigliettaio e, mappe alla mano, raggiunge quella strada tra via Turati e via Giolitti e dove il salone di barbiere ha un’insegna che sembra una chiara premessa al successo: “Barber Shop”. Entrerà subito in confidenza con il principe degli acconciatori e a lui svelerà il taglio che desidera. In vero sussurrerà a bassa voce il nome di Franco Gasparri, sua accortezza lieve ma lì dentro vi sono fotografie di quell’attore e poi anche dei colleghi Jeff Blynn e Franco Dani.

Bene, tutto perfetto, egli allora s’alza dalla poltrona dopo che il Figaro in questione gli ha anche spruzzato una lozione profumata e, giunto alla cassa, lascia anche la mancia, da vero signore, e poi prende un paio di biglietti con tutti i recapiti di quel negozio e con l’insegna stampata BARBER SHOP e possedere quel biglietto a lui sembra come l’inizio d’un suo avanzamento sociale. È felice, avanzerà di molto come credibilità esibendo quel talloncino e così la strada verso un futuro luminoso è ormai certa. È tutto in riga e profumato quando guadagna nuovamente la strada e a quel punto raggiunge il capolinea del tram e vi sale e si siede e guarda fuori e sogna di veder salire ad una fermata Franco Gasparri. Torna a casa ma non farà parola della sua avventura e nessuno saprà mai di quella sua attraversata che rimarrà forse il primo tassello epico della sua vita.

Sulla fronte quella chioma era a visiera e così ogni specchio veniva violato per osservare se quell’acconciatura reggeva. Ma come per i curriculum, non era mai contento, e in molte occasioni se la prendeva con l’acconciatore che non aveva eseguito correttamente le sue indicazioni.

Ma a parte i curriculum e la chioma, coesistono in Capodiferro due sentimenti che pur essendo diversi finiscono per puntellargli l’animo: da una parte egli vive una recriminazione contenuta, un disincanto, la “favola bella” dell’esistenza gli appare in certi momenti poca cosa; dall’altra emerge in lui, come in un benefico contrappeso, un’euforia e così una raffica di programmi che espone come se ci fosse ancora tantissimo tempo davanti. In fondo ripete quanto esposto sin dalla giovane età, quando era studente. E sebbene questa gioia improvvisa si riconosce “a tempo”, comunque migliora qualcosa in lui e scansa per un po’ tutte quelle riflessioni negative che spesso lo fanno procedere a testa china proprio come un filosofo scettico.

Il rapporto con gli altri è spesso complicato ma questo accade per quella imbrattatura di narcisismo di cui s’è detto. Comunque, quando accadono incomprensioni o lievi litigi, è lui il primo a lenire contrasti e disaccordi e questo avviene dopo che ha analizzato l’accaduto dividendo tutto l’affresco in tanti episodi così che sia più facile capire e, eventualmente, correggere. Li ripassa uno per volta fino a che la sua diagnostica non risulti compiuta. Devo dire che è il primo a re-inserirsi nell’amicizia e a scherzare su quanto ha fatto e su ciò che gli hanno “rimproverato”. In questo non porta rancore e il suo agire precede quello degli altri. Si sente parte della comunità, è cattolico apostolico romano ed è un fedelissimo di rituali e ricorrenze, insomma è esageratamente vero e credo si domandi spesso perché gli altri non valutino il mondo con il suo stesso metro di giudizio. Vola in Europa e in aereo si sente come nel salotto di casa. La sua residenza è stata spesso Amsterdam ma la sua sete di gloria è qui, tra noi, e anche in quel rifugio che si chiama Assergi.

È il Claudio che per l’inverno in montagna s’equipaggia adeguatamente per non soffrire il freddo, che sentendosi al riparo diventa più umano, “vuota il sacco” circa i suoi programmi imminenti; che è figlio di questo mondo contemporaneo di cui approva quasi tutto, dalla Téchne ai meeting planetari con intenti di fede. È come dire Scienza e Fede, le due categorie che procedono appaiate ognuna nel tentativo di provare la superiorità sull’altra. È uomo di questa contemporaneità, non guarda al passato come un rifugio, non cerca di frugare nelle verità ad esempio degli gnostici, dei Padri della Chiesa o nella Filosofia greca dove a volte si può trovare più consolazione che non nelle telemesse o negli odierni aggiornamenti della Teologia.

Tutti gli umani sono dei “progetti gettati” nel mondo, cioè venuti all’essere secondo la definizione di Heidegger, ma queste avventure ontologiche non sfiorano Claudio e la sua fede nel Cristo e nei Vangeli credo sia per lui il più bel dono che abbia ricevuto. La fede non deve essere esibita ma sentita e vissuta in silenzio rimanendo in penombra durante i rituali. Deve essere come la beneficenza che non va sbandierata e che sembra attenuarsi nella sua portata quando si svela volendo con essa distinguersi, a volte anche platealmente.

Il passato che lo interessa è quello delle stagioni felici, dalla fanciullezza ai vent’anni: su questo segmento temporale ecco che Claudio Capodiferro costruisce la sua epica, s’esprime al meglio e nel racconto emergono tutte le giornate delle scelte, delle speranze e di quelle che poi si sono rivelate illusioni. Ma Assergi è luogo fondamentale per lui e certi stati d’animo, certe atmosfere ritornano in me grazie alla sua figura ondeggiante tra stradine del paese e sentieri di montagna, odore di legna nel fuoco e usci chiusi da decenni; e ancora vecchi in flanella sugli usci, ad un passo sempre dal focolare. Ma i vecchi che vedemmo, oggi non esistono più. Hanno altri volti, altri nomi, si mostrano in bermuda e orologio. Sono attenti ad ogni aspetto della vita e molti di essi appaiono anche abbronzati. E non sono più chiamati vecchi. Non è una tristezza anche questo?

Mi scuso per il titolo che sembra un fascicolo aperto da un gip ma credo che l’intestazione non poteva che essere IL CASO CAPODIFERRO per il modo in cui si coglie una differenza e, in fondo, una purezza e una disperazione.



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