Quaranta anni fa cadevano gli ultimi diaframmi della Galleria del Gran Sasso

A 40 ANNI DALLA CADUTA DEGLI ULTIMI DIAFRAMMI DELLA GALLERIA DEL GRAN SASSO E DALLA VISITA DI GIOVANNI PAOLO II

- di Federica Farda -

Gli ultimi diaframmi, caduti nelle due gallerie più lunghe d’Europa la mattina del 26 giugno 1980, e ora posti come cippi all’ingresso dei rispettivi imbocchi ricordano chi non ce l’ha fatta a vedere il matrimonio tra i due mari, il Tirreno e l’Adriatico, dopo 12 anni di duro lavoro. “Relativamente pochi con tutto il rispetto per le vittime – dice Roberto Salza il geometra, che prima per la S.A.R.A e poi per l’ANAS, seguì tutta l’opera – "in considerazione della dura impresa le cui condizioni lavorative sono tra le più ardue in assoluto tenendo conto anche delle norme pressoché inesistenti dell’epoca. Di poco superiore alle 10 unità i morti, uno solo dovuto a un crollo nel tunnel, gli altri causati da tragiche coincidenze. Peccato, però, non esser riusciti mai a combinare un omaggio floreale commemorativo annuale ai piedi dei due cippi”.
Il suo rammarico, il suo sogno, forse a sottolineare l’impresa titanica. Otto anni, considerando un’interruzione di quattro perché i soldi erano finiti, per “bucare” da parte a parte la dura e compatta roccia calcarea e dolomitica del massiccio più alto degli Appennini. Senza usare il martello demolitore ma solo ricorrendo a cariche di esplosivo e lavoro manuale per perforare poco più di 10 chilometri e cento metri. Tre turni giornalieri in un cantiere h 24 sei giorni su sette che ha impiegato costantemente 300-400 operai nel lato teramano e ha raggiunto punte delle mille unità in quello aquilano. Successe quando si verificò l’incidente tecnico di Valle Fredda, il più grave e improvviso intoppo del cantiere, un’emorragia d’acqua di centinaia di miglia di litri al secondo che ostruì il tunnel scavato e i macchinari. Lì sopraggiunse poi l’ingegno umano per continuare a lavorare: paratie di lamiere posizionate in modo fitto e costante a protezione delle volte. “Gli operai in galleria – racconta Salza - non resistevano più di due ore e mezza compreso il tragitto per entrare e uscire di trenta minuti. Dentro c’era una temperatura costante di 7 gradi e acqua a 5. Si riemergeva completamente bagnati, pure noi tecnici ci dovevamo cambiare immediatamente ogni volta che ci recavamo ed uscivamo dai tunnel, anche cinque o sette volte al giorno nonostante fossimo dotati di mantelle e stivali". In ognuno dei tre turni giornalieri si alternavano quattro squadre di operai e ciascuno aveva il suo compito. Così tre volte al giorno si perforava, si facevano brillare mine, si recuperava lo smarino, si posava la centina a sostegno della volta con ulteriori rinforzi con spritz-beton una sorta di cemento a presa rapida e si posizionavano le lamiere. Quando andava bene si avanzava di quattro metri e mezzo al giorno, centocinquanta centimetri per ogni turno.
La sicurezza? “Inesistente se paragonata alle misure odierne. Cuffie, ad esempio, chi l’aveva e chi no ma uno degli accorgimenti adottati prevedeva non più di quattro persone quando si sparava e almeno a 200 metri di distanza”. Due ultimi rammarichi per Salza, autentico fiume di ricordi e di nomi dell’impresa (due su tutti l’ingegnere Cesare Antiga, deus ex machina dell’opera e il geologo Piergiorgio Catalano): la terza galleria e il recupero del materiale di risulta. La “canna” di servizio o di sicurezza “si poteva e può ancora fare, i tre progetti lato L’Aquila ci sono ed è una garanzia per l’incolumità degli automobilisti e dei lavoratori dei laboratori, basta trovare solo la volontà politica” ed era opportuno vendere a metà prezzo tutto il materiale di risulta ancora in gran parte accantonato sul versante Assergi con enormi benefici per il demanio che ne è proprietario.

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